Raggiungere un’isola dal mare è sempre un momento emozionante. Onda dopo onda, quella terra inizialmente così lontana si trasforma in un punto fermo verso cui fissare occhi e prua.
Lo scorso weekend ho raggiunto Ponza nello stesso modo in cui migliaia di anni fa la raggiungevano i romani ed i turchi e mentre ci avvicinavamo verso quella striscia di terra fortunatamente emersa pensavo allo stupore di cui avranno goduto gli antichi esploratori. L’idea di poter urlare «Terraaa!» ad un gruppo di uomini che per giorni avevano solo visto acqua e sole doveva essere qualcosa di potentissimo.
Un istante che la naturale evoluzione ci ha negato ma che, probabilmente, un giorno vivremo ancora quando sapremo davvero far capolino al di fuori di questa palla blu che ci ospita.
Ponza è un isolotto abitato da poco più di tremila anime e l’arrivo a vela è stato lento, un po’ come lenta è la vita di chi in quei luoghi così belli ma così distanti dal resto ha scelto di vivere.
Ho respirato la loro aria, son tornato a casa felice.
Sono tornato a Chicago per la terza volta. La Windy city, come la chiamano gli americani, è diventata la città americana che abbia esplorato di più.
Questa volta però, prima di addentrarmi nella city ho visitato la zona di West Chicago, Saint Charles e Geneva ed è da lì che vorrei partire nel mio racconto.
Delle zone rurali dell’America del nord, conservo sempre emozioni contrastanti. Apprezzo l’innegabile senso di benessere che le casette fuori città sanno trasmettere ma al contempo ho spesso la sensazione che sia facilissimo sentirsi isolati e distanti.
Angoli deliziosi che al di fuori delle tre vie principali si trasformano rapidamente in zone a bassa densità di popolazione e con qualsiasi servizio raggiungibile esclusivamente in auto.
Nulla di incredibile per l’americano medio probabilmente ma la sensazione di un mondo non più a misura d’uomo mi ha lasciato perplesso: non so se davvero mi piacerebbe vivere lì.
Fuori dalle città tutto è concentrato in giganteschi centri commerciali preceduti da mega parcheggi. Ironicamente pensavo sempre che se mai un giorno gli americani dovessero trovare un parcheggio pieno, immediatamente spianerebbero la zona accanto per crearne uno nuovo altrettanto grande. D’altronde lo spazio lì non manca e, confrontato all’hinterland milanese, questo regalava una bellissima sensazione: tanta aria, tanto verde intorno. Anche per questo, probabilmente, le case si permettono con facilità giardini immensi (tipicamente ben mantenuti) e strade adatte a contenere il più folle dei SUV americani.
Una sera a Geneva siamo andati a prendere una birra in un locale con musica dal vivo e serata karaoke: non tutti avevano grandi qualità canore ma tutti ci provavano con grande semplicità.
Ho ri-assaggiato la Giordano’s pizza, la tipica pizza rialzata di Chicago (che nasce dalle capacità culinarie di una famiglia torinese): chiaramente non è la pizza napoletana o comunque la pizza come la intendiamo noi. La pasta è leggermente diversa (è più simile a quella che si usa in una torta salata, leggermente più biscottosa) ma nel complesso è un buon pasto. Si può avere farcita semplicemente con del formaggio o, come nella versione scelta da me, con un po’ di carne e verdure.
Dei locali americani colpisce sempre la possibilità di consumare al banco. Che sia una birra, un cocktail o un intero pasto, sgabelli e bancone non mancano mai, anche all’interno di ristoranti un po’ più raffinati. I locali poi sono sempre arredati con TV che proiettano sport 24 ore su 24.
A proposito di sport, ho colto l’occasione per andare a seguire la partita tra i Chicago Cubs ed i Miami Marlin. Devo riconoscere che da profondo ignorante la prima mezz’ora di gioco ho letteralmente faticato nel comprendere chi stesse vincendo. Il tabellone dei punteggi è strapieno di numeri alcuni dei quali non son riuscito a decifrare neanche a fine partita. Gli aspetti divertenti e diversi dai nostri son tanti. In primo luogo è apprezzabile l’aria di festa che si respira: a differenza del nostro sport nazionale, la partecipazione è adatta a qualsiasi età. Nonostante il freddo pungente (ma era un problema per me, non per loro…) ho visto anche qualche famiglia con neonato in braccio e nonostante i Chicago Cubs abbiano perso il pubblico è rimasto composto ed è andato via senza particolare (stupida) violenza da sfogare.
Gli inevitabili intervalli di questo sport sono riempiti da quiz sui tabelloni infarciti di pubblicità o da riprese al pubblico (che spesso fa il possibile per essere inquadrato). Inoltre è possibile ordinare cibo o bevande direttamente al posto, senza muoversi (cosa che gli americani gradiscono particolarmente e che si intravede in tanti altri aspetti delle loro abitudini quotidiane…). Immancabile e caratteristico ad un certo punto dell’evento il saluto all’ex-militare in pensione presente sugli spalti: gli americani sentono fortissima la loro potenza militare e spesso i locali o gli eventi hanno tariffe differenti per i veterani. Ogni azione della partita infine è accompagnata da piccoli motivi musicali che enfatizzano il risultato in positivo o in negativo. Insomma, uno show nello show, assolutamente da vivere almeno una volta.
Fare un giro dentro Chicago è stato inevitabile ma ho evitato il tour nei grattacieli avendone visitato più di uno in passato. Ho comunque colto l’occasione per fare l’«Architecture tour» sul Chicago River per scoprire qualche nuovo dettaglio su questi palazzoni così affascinanti.
Ho scoperto così che son solo due i grattacieli a Chicago che contrastano l’azione del vento attraverso un sistema di correzione del baricentro realizzato tramite grossi serbatoi d’acqua posti in alcuni piani non abitabili dell’edificio. Uno di questi è il St. Regis, quel palazzone ondulato visibile nelle foto.
Oppure, ho scoperto che la ragione per cui il «150 North Riverside» ha una base così stretta è che esiste una norma che prevede che gli edifici di Chicago devono essere distanti 35 piedi dalla riva del fiume e tale limite non ha mai avuto deroghe.
A proposito di piedi, sono in attesa che l’evoluzione umana porti all’adozione del sistema metrico decimale anche dalle loro parti. Trovo assurdo ragionare in pollici, spanne, braccia – tutte misure non proporzionali tra loro – e sentire dire al navigatore dell’auto di svoltare a destra tra mille piedi…
Ci siamo illusi per anni che i blog potessero diventare dei luoghi centrali nella rete. Nella realtà, ormai, sono ai margini dell’informazione: luoghi lenti, piccoli, poco conosciuti e visitati. Al contempo, probabilmente, sono i luoghi più veri ed intimi della nostra partecipazione digitale.
Probabilmente l’errore originale è proprio lì. La rete è un luogo pubblico per eccellenza e il tempo ha dimostrato che esteriorità e per certi versi superficialità, caratteri tipici dei luoghi pubblici, hanno avuto la meglio.
Un peccato originale dovuto all’ingenuità di chi la rete la popolava e la costruiva negli anni in cui la massa ancora non sapeva esistesse. Abbiamo pensato che l’intima relazione che si riusciva a creare tra le persone, in un luogo – al tempo – piccolo e riservato, potesse semplicemente catturare ed educare tutti i nuovi arrivati.
La velocità di adozione però non ha permesso alcuna passaggio di informazioni. La massa è arrivata con le sue dinamiche e la piazza, quel luogo d’incontro fisico nel quale ognuno di noi passeggia col suo cappotto più bello, è arrivata nel digitale, nelle sue stories, nei like dati alla passante dai tacchi scintillanti.
I blog non erano parte delle piazze, erano al massimo degli angoli di quartiere e tali son tornati ad essere. Piccoli anfratti, difficili da trovare che spesso nascondono storie e passioni che più volte abbiamo desiderato potessero ammirare tutti.
Grazie ad un mega-regalo ho potuto vivere l’esperienza di guidare una Ferrari 488 in pista.
Calarsi in quell’abitacolo, impugnare un volante così mitico e cliccare sul pulsante di Start è già un’emozione stupenda ma uscire dai box per fiondarsi tra le curve è stato qualcosa di indimenticabile.
Non starò ad elencare tutte le qualità di un’auto meravigliosa, ciò che però io porto a casa quale esperienza è… la difficoltà di staccare bene.
Esatto. Frenare. Tutti gli appassionati di motori sanno bene quanto vengano elogiate le qualità di «staccatori» di alcuni piloti ma al contempo, finché non si vive quel momento, non se ne coglie il senso.
Frenare è molto più difficile che accelerare. Aumentare la velocità è quasi istintivo: quando vedi strada davanti viene naturale affondare sull’acceleratore e cercare di raggiungere quanto prima la prossima curva.
Capire dove iniziare a fermarsi è qualcosa di completamente diverso. Sia perché la 488 ha dei freni meravigliosi ed un beccheggio inesistente, sia perché a «staccare» non siamo proprio abituati.
Nella guida quotidiana infatti, se non in situazioni di emergenza, non inchiodiamo mai. Non siamo dunque naturalmente abituati a valutare gli spazi di frenata a varie andature.
Ogni giro percorso al volante è stato dunque un’occasione in più per prender confidenza con quel pedale. Di giro in giro è stato sorprendente vedere come l’impianto potesse dare sempre di più. Frenare pochi metri più avanti significa lasciare che l’auto viaggi ad alta velocità per alcuni istanti in più con un effetto diretto sul tempo su giro.
Dato che i tempi non erano l’obiettivo della mia giornata, mi son concentrato proprio sul migliorare costantemente i punti di staccata, andando a cercare e richiedere sempre più potenza all’impianto.
Sfortunatamente ad un certo punto è arrivato il momento di rientrare ai box e purtroppo non ho trovato una via di fuga dal circuito…
Qualche domenica fa abbiamo organizzato una gita in giornata sul monte Pora. La neve era un mix di neve vera e di neve sparata dai cannoni.
Devo ammettere che guardando oltre l’euforia delle bambine son tornato a casa con un senso di amarezza non trascurabile.
Io son cresciuto in Sicilia, la neve l’ho vista poco, vissuta ancor meno. Ricordo però i miei primi anni a Milano, non troppo distanti nel tempo ma – per assurdo – ormai profondamente diversi dalla situazione meteorologica in cui viviamo. Sono al quattordicesimo inverno nel nord Italia e la nebbia assassina e la neve copiosa sono diventati fenomeni rari. Nell’hinterland milanese tra pochi anni non avrà più senso montare le gomme invernali sulle auto.
Sono andato via, dicevo, con l’amarezza e la consapevolezza che le mie figlie, da grandi, vedranno ancora meno neve.
Ogni tanto qualche amico mi invita a far frequentare un corso di scii alle bimbe ma gli sport invernali diventeranno sempre più qualcosa di elitario, raro e complesso. La neve fresca sarà poca, quella sparata sarà costosa. I punti in cui sarà sostenibile mantenere un impianto sciistico diventeranno sempre meno.
Ha senso in ogni caso ostinarsi a produrre qualcosa che non c’è più? Ha senso continuare a dare sussidi ad un settore destinato inevitabilmente a ridursi notevolmente?
Negli anni, la mia presenza online si è ridotta sensibilmente. Ho abbandonato tutti i social mainstream e la mia interazione digitale si è spostata negli spazi piccoli. Quegli scambi rappresentano però una percentuale molto piccola della mia attività in rete. Come un iceberg e la sua massa sommersa, la passione per l’informatica nel tempo si è trasformata ed ha trovato spazio in settori poco visibili e meno sociali.
In questi anni è aumentata notevolmente la mia passione per i progetti opensource, per le attività decentralizzate, per tutto ciò che è alternativo e distante dagli schemi del capitalismo. Privacy e self-custody sono temi difficili da far comprendere ma a me molto cari.
Questo blog, totalmente indipendente, rimane uno dei pilastri della mia vita digitale. Non volendo renderlo sempre più isolato, da un po’ di tempo ho attivato un plugin per WordPress utile a federare i suoi contenuti.
Pertanto, se hai voglia e hai un client ActivityPub (Mastodon?) puoi seguire i contenuti di queste pagine aggiungendo @emanuele@www.dreamsworld.it al tuo account.
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Alice a Dicembre ha compiuto un anno e da qualche settimana ha iniziato a riferirsi a me con un suono che ricorda il termine giudaico. Vivo questo richiamo come sugello definitivo al mio status attuale.
Questi anni stanno correndo veloci e – al contempo – sempre più intensa è la consapevolezza che questi momenti non torneranno più. Probabilmente Alice sarà l’ultima figlia (siamo a tre, van bene così…) e ogni suo traguardo sarà l’addio ad una fase che tra le mura di questa casa e le abitudini di questa famiglia non tornerà nuovamente.
Vivo in una costante altalena in cui da un lato vorrei che anche lei crescesse presto per liberarci da alcune fatiche mentre dall’altro potesse farci godere della giovinezza (sua e nostra) ancora per molto tempo.
E’ uno strano saluto col quale non sapevo di dover fare i conti e al quale non ho badato mentre osservavo crescere le altre due sorelle (c’era sempre spazio, potenziale, perché arrivasse una nuova vita a casa).
Abbiamo trascorso la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno in una casa con una grande terrazza sul mare. Il meteo clemente ci ha permesso di far colazione respirando il vento dell’Africa e la sera osservare il lento rientro dei pescherecci. Quei due momenti così diversi, davano ordine e ritmo alle nostre giornate tutt’altro che quiete.
Il mare è vita e d’inverno ti trascina verso emozioni molto diverse. Il mare, non ha mai sosta. Ho passeggiato scalzo sulla sabbia cercando il più possibile di rimanere collegato con il presente, ho osservato l’acqua da vicino mentre qualche gabbiano cercava di che sopravvivere e le bambine dei nuovi strumenti con cui disegnare sulla battigia.
In quel momento fermo, immobile ed infinito, mentre il nostro riflesso si intravedeva su quella massa – trasformandoci in un tutt’uno – ho sentito il mare commentare «guarda che onde alte oggi».
Non conosco approfonditamente la musica di Lewis Capaldi ed ho scoperto di recente della sua malattia (è affetto dalla Sindrome di Tourette). Nonostante ciò Capaldi continua nella sua attività e, con estrema autenticità, si mostra al pubblico nelle sue difficoltà.
In concerto a Glastonbury fatica nell’intonare il ritornello di una delle sue canzoni più famose, «Someone you loved», scritta in memoria della nonna.
Mi auguro che questo periodo di feste possa essere per ognuno di noi il momento in cui allenarci ad esser sempre noi stessi accettando i limiti altrui e riconoscendone i talenti.