Helen è una ragazza cinese. In realtà quello è un nome d’arte, il nome che durante la scuola per traduttrici lei scelse per presentarsi agli interlocutori occidentali. Conosco il suo nome, l’ho salvato nella mia rubrica ma a distanza di anni continuo ad avere dubbi circa la corretta pronuncia.
La conobbi durante il mio anno cinese. Helen veniva a prendermi in aeroporto a Shanghai. Le prime volte la trovavo agli arrivi con un bel cartello in mano col mio cognome, più avanti ci riconoscevamo senza bisogno di intermediazioni. La mattina la trovavo nella hall del mio albergo, in paziente attesa che arrivassi, per prendere insieme un minivan che ci portava in impianto [1]. Lei era sempre pronta e tranquilla, io apparivo tutto trafelato dalla porta roteante con la faccia ancora con le linee del cuscino.
Nelle giornate lavorative era la mia ombra. Sempre molto discreta e pacata con Helen parlai un po’ di tutto.
Ad un certo punto del progetto Helen si invaghì di me. Si propose di accompagnarmi un weekend ad Hanghzou (cosa che poi sfumò e andai solo) e una domenica mi invitò a pranzare insieme in un locale all’interno di un grande centro commerciale. Io da bravo rincoglionito per questo genere di affari, non mi resi conto di nulla finché una sua collega non mi confessò la cosa qualche mese più avanti.
Mi fece sorridere. Non reputo Helen una bella ragazza, ma so che questo mio giudizio è fortemente influenzato dalle differenze fisionomiche importanti [2]. La reputavo comunque un’ottima traduttrice e una persona dalla pazienza encomiabile.
In questi anni non ci siamo persi di vista. Abbiamo continuato a farci gli auguri per i compleanni o per capodanno (e io per questo ho imparato a far caso a quando cade il Capodanno cinese) e in questo periodo in cui “tutto il mondo è più vicino” abbiamo condiviso informazioni e consigli sulla strategia di sopravvivenza.
Lei mi racconta che nella sua città (Nanjing, un’altra cittadella da otto milioni di abitanti) sono tornati ad una pseudo-normalità. E’ tornata a lavoro ma quasi tutti i luoghi pubblici sono “no mask, no access“: devi avere la mascherina. Al contempo i ristoranti non sono ancora pieni di gente come lo erano un tempo.
Credo che anche l’Europa del dopo-coronavirus vivrà quelle dinamiche: un distanziamento sociale dato sia dalla necessità che dalla paura leggittima delle persone (“come faccio a fidarmi che l’altro non sia infetto?”). Chiederle come vanno le cose di là, mi aiuta a prepararmi mentalmente a quel che vivrò di qua.
So che la mia non è l’unica bella storia di Italia-Cina da raccontare, ma in questi giorni Helen ha deciso di mandarmi un bel pacco di mascherine e questo gesto così carino mi ha ricordato ancor di più come questi momenti di crisi sono un’occasione per rafforzare relazioni e rivedere la lista di ciò che riteniamo indispensabile nelle nostre vite.
Probabilmente all’occidente toccherà un cambio di mentalità in tanti aspetti. In questi giorni leggevo di una proposta tedesca del diritto al lavoro da casa (nuovo paradigma, non più una possibilità, ma un diritto) per tutte quelle professioni che lo permettono ma anche di nuove dinamiche di contatto sociale. Penso ai giapponesi che quando hanno un’influenza, stanno a casa perché è culturalmente deplorevole farsi vedere in giro come untori.
Siamo abituati all’idea che la mascherina sia qualcosa che usano solo gli orientali, ma quest’idea in fin dei conti è solo un retaggio culturale e nient’altro. Riusciremo ad abituarci all’idea che usarla durante il prossimo raffreddore stagionale possa essere un segno di rispetto verso tutti? Quale sarebbe il risparmio per la società in termini di carico sul servizio sanitario e disponibilità di forza lavoro?
Non so come sarà il mondo tra dodici mesi, ma so che abbiamo una bella occasione, nonostante tutto il dolore o forse grazie a tutto il dolore.
Emanuele
[1] Io dormivo in un lussuoso albergo per occidentali, per intenderci c’era persino un’addetta che “viveva” in ascensore e puliva continuamente pulsantiera e corrimano dorato dentro lo stesso. Le traduttrici invece soggiornavano in un albergo “per cinesi” lì vicino.
[2] Ad essere onesto, spesso faticavo nell’assegnare un’età alle persone: tante mi sembravano più giovani di quel che erano. Non so se dipendesse dalla frequentissima assenza di barba negli uomini o altro.