Chi leggerà questo titolo e si fermerà ad esso penserà “ma vedi che tipo… il solito che non vuol far nulla!“. Bene, non è così.
Una delle prime sere del viaggio mi son trovato a confrontarmi con gli altri partecipanti della “spedizione“. Una ragazza si lamentava perché fino ad allora non si erano scavati pozzi o dipinte pareti (parafrasando…). Il nostro ruolo si era limitato alla visita di varie famiglie del villaggio, alla condivisione di un pranzo o una cena e poco altro. Ci si chiedeva insomma se realmente questo viaggio fosse stato ben organizzato o meno.
Il preconcetto con cui parte tanta gente dall’Europa, infatti, spinge a credere che il missionario sia il super-eroe (o il piccolo eroe perché c’è anche una buona fetta di “no, devo rimanere umile!”) che in quindici giorni fa schizzare l’acqua dal terreno o che ripara una cinquantina di banchi prima dell’inizio delle nuove lezioni. Parte con una carica (positiva, per carità) così grande che non riesce a star fermo. Devo ammettere che per qualche istante anch’io ho creduto di star facendo troppo poco.
La realtà però è un’altra e ancora più bella. Ve la spiego però con un esempio laico, ben distante dalle religioni e dall’Africa.
Pensate ad una coppia gay (tema molto attuale in questo periodo) derisa e abbandonata dal resto dalla società per via della loro forma d’amore poco convenzionale. Secondo voi, per loro, è più importante sapere che c’è qualcuno che crede in loro, che gli fa forza e li spinge a perseverare nel loro cammino oppure ricevere due settimane d’ospitalità in un letto bello comodo?
Ecco. Se si entra in questa dimensione, qualsiasi viaggio in Africa, anche senza scavare pozzi, diventa una missione. E missione a quel punto non è solo quando ti cambi d’abito ed inizi ad imbiancare una parete ma – ancora prima – quando ti svegli e uscendo fuori dai il buon giorno sorridendo a qualche bambino che è lì ad aspettarti.
Fare questo passo quando si parte verso paesi in via di sviluppo è importante, altrimenti si corre il rischio di tornar delusi… ma non per colpa della proposta, quanto perché le nostre aspettative desideravano qualcosa che non è necessario.
Diventare missionari non è imporre e realizzare i nostri desideri quanto accogliere, riconoscere e adoperarsi per il bisogno di chi si ha di fronte. Fosse anche un semplice abbraccio.
Emanuele
PS: no, il lavoro duro non è mancato.
ciao ^^ sono capitata per caso nel tuo blog e mi ritrovo subito subito a commentare eheh.
Sono tornata proprio qualche settimana fa da una missione in Uruguay con la mia associazione di clownterapia.
Ospitati da un gruppetto di suore attive nella parte più povera di Rivera, avevamo sotto gli occhi ogni giorno bambini e adulti scalzi e con vestiti leggerissimi in pieno inverno, casupole di legno tanto storte da far invidia alla torre di Pisa, tanti visini sporchi e la nostra missione alla fine non prevedeva poi molto di concretamente utile per le loro vite… Spesso in condivisione è stato espresso lo stesso “sconforto” tirato fuori dalla tua compagna di viaggio.
Ma con il senno di poi, sul fare del ritorno ci siamo resi conto che anche i piccoli gesti sono “missione”: il “buen dia” a tutti i bimbi del mattino, l’inventarsi accompagnamenti stravaganti alle canzoni della Messa, una smorfia buffa ad un bimbo che piange, l’uscire a giocare nella mezz’ora “libera” invece di riscaldarsi al camino, un semplice sorriso, una pacca sulle spalle, un “ce la puoi fare”… E paradossalmente abbiamo donato più con i piccoli gesti piuttosto che con le imprese di costruzione!
Uhm, sono un pò logorroica e mi scuso, ma ho ancora la missione “fresca” in testa ehheheheh.
Un saluto 🙂
Ciao Celeste… e benvenuta! Wow, Uruguay, dev’essere stata una bellissima esperienza anche la tua! Vedo che le sensazioni, quando si è in missione (indipendentemente dal luogo) son sempre le stesse e non eravamo noi gli unici quattro pazzi a pensar certe cose! Come si chiama la tua associazione?!
Comunque è proprio questa la scoperta più bella la prima volta che si parte: accorgersi che basta niente per fare già tanto. Quel che per noi può sembrare una stupidaggine per loro il più delle volte è un gesto enorme. Come quando dei ragazzi adolescenti volevano assolutamente una foto con noi. Dei bianchi, accanto a loro… chissà quanto si son sentiti fortunati (e facevano a gara!). Noi guardavamo solo la foto, per loro c’era qualcosa che intuivo ma non avrò potuto comprendere totalmente.
Tranquilla per la logorroicità… anch’io quando mi ci metto… 😛
Buona giornata,
Emanuele
[…] stato in Africa la scorsa estate, non per cercare una realtà “da terzo mondo” in cui spendermi (sebbene poi sia inevitabile farlo) quanto, più che altro, per assorbire il più possibile da una […]